Tra il 1611 e 1633 si è consumato il processo a Galileo Galilei, principe dei dotti del suo tempo, sul nudo banco dei sospetti eretici al Sant’Uffizio romano, reo di aver immaginato il mondo in un modo diverso dal pensiero aristotelico-tolemaico dominante al suo tempo.
Galileo nella sua purezza di spirito, quale fervido credente, riteneva che <<l’intenzione dello Spirito Santo è quella di insegnarci come si vada in cielo, non come vada il cielo>>.
Il matematico ducale formula il principio dell’autonomia della natura, che diverrà uno dei capisaldi della scienza moderna, convinto che tale autonomia non fosse in opposizione alla Sacra Scrittura e che l’uno e l’altro libro – quello ispirato da Dio e quello della natura indagata dall’uomo – potessero, anzi dovessero accordarsi nell’unica verità.
La vicenda storica del fisico fiorentino è a tutti nota, Galileo sosteneva il principio copernicano che la terra gira intorno al sole mentre il pensiero dominante dell’epoca era quello in base al quale è il sole che gira intorno alla terra.
A nulla è valso l’esistenza di una verità oggettiva, sotto gli occhi di tutti, si è preferito ritenere che non contasse la verità scientifica ma quella rilevata nelle scritture.
Costretto ad abiurare, la sentenza di condanna ha inflitto un carcere formale ad arbitrio del Sant’ Uffizio, infliggendo la recita dei salmi penitenziali una volta la settimana per tre anni, riservando ai giudici la facoltà di moderare, mutare, o levar in tutto o in parte, le suddette pene e penitenze.
La vicenda del matematico e fisico fiorentino non va dimenticata anche perché purtroppo ancora attuale. Occorre riflettere sul perché del processo, dell’abiuro e della condanna.
Nel periodo di Galileo la Chiesa doveva combattere il protestantesimo, che tanto danno aveva fatto nell’Europa centro settentrionale, e si era dotata di regole molto rigide sulla dottrina e sul rigore da mantenere per difendere i cardini della fede.
Il processo e la condanna a Galileo sono stati certamente un errore, come unanimemente riconosciuto, tuttavia l’episodio va contestualizzato all’epoca dei fatti.
Anche oggi mutatis mutandis lo Stato ha un grande nemico da combattere nel pubblico impiego rappresentato dalla corruzione.
Allo scopo di combattere questa “guerra santa” sono state adottate una serie di misure volte a ridurre il fenomeno.
Tuttavia, come appresso si dirà, le buone intenzioni del legislatore non hanno sortito l’effetto sperato ed i rimedi adottati si sono rilevati peggiori del male che si voleva curare.
La prima forma di anticorruzione è stata quella della nomina fiduciaria dei dirigenti.
Molto si è detto e scritto sul tema.
Occorre, qui, riflettere su due aspetti:
La scelta del dirigente. La durata dell’incarico.
- Scelta del dirigente: La normativa di riferimento deve essere individuata, per tutte le pubbliche amministrazioni, comprese i Comuni, negli artt.13 e ss. del D.Lgs.165/2001.
Tali disposizioni sono direttamente applicabili solo alle amministrazioni dello Stato; tuttavia, l’art.27 del D.Lgs. 165/2001 (già art.27 bis del D.Lgs.29/1993 come modificato dal D.Lgs.80/1998) stabilisce espressamente che “le regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche amministrazioni, nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano ai principi dell’articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità…”.
Si noti che non si tratta di una semplice raccomandazione, ma di un vero e proprio obbligo, con la conseguenza che disposizioni regolamentari in contrasto con i principi stabiliti dal D.Lgs. 165/2001 in tema di dirigenza potrebbero essere impugnate per violazione di norme imperative di legge. L’art.13 del CCNL dell’area della dirigenza EE.LL. del 23.12.1999, secondo il quale “gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti dall’ari. 19 … del D.Lgs.29/1993, con particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può essere inferiore a due anni…”, si limita a ribadire un obbligo già previsto dalla legge.
Ciò premesso, l’art.19, comma 2, del D.Lgs. 165/2001 e ss.mm.ii., stabilisce che la durata degli incarichi dirigenziali deve essere correlata agli obiettivi prefissati e “non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni” (cfr. art.l4-sexies della L. 168/2005); devono dunque ritenersi implicitamente superate tutte le clausole dei contratti collettivi che consentono incarichi dirigenziali di durata inferiore a tre anni (come l’art.13, comma 2 del CCNL del 23.12.1999).
Inoltre, l’art. 19 del T.U.P.I. (Testo Unico Pubblico Impiego) è norma imperativa, non derogabile per espressa disposizione di legge. Inoltre, l’art.88 del T.U.E.L. 267/2000 dispone che all’ordinamento degli EE.LL., ivi compreso i dirigenti ed i Segretari Comunali, si applicano le regole del D.Lgs.29/’93 e ss.mm.ii.
La normativa di riferimento esiste, è chiara e disciplina la materia.
L’art. 109 del Tuel impone che la scelta per gli incarichi con funzioni dirigenziali deve avvenire secondo criteri di competenza professionale.
E’ principio di diritto noto che non si può attingere a professionalità esterne all’Ente comunale quando vi è prova di idonea professionalità interna.
Giova al riguardo richiamare il quadro normativo rappresentato:
- dall’art.110, comma 1, del Tuel, in base al quale “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato,fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”;
- dal Regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi di ogni comune;
- Dalle varie leggi regionali sulla Polizia Municipale che riconoscono ruoli e funzioni peculiari della categoria.
L’intera materia degli incarichi dirigenziali è retta dal diritto privato e l’atto di conferimento è espressione del potere di organizzazione (v. Cass. 22/2/2006 n. 3880), rispetto al quale la posizione soggettiva del dirigente aspirante all’incarico non può atteggiarsi come diritto soggettivo pieno, bensì come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei diritti di cui all’art. 2907 cod. civ.
- dall’art.110, comma 1, del Tuel, in base al quale “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato,fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”;
- b) durata dell’incarico La Corte Costituzionale a proposito del conferimento di incarichi dirigenziali con la sentenza n. 81/2010 depositata il 05.03.2010 così chiarisce: <<Questa Corte ha già avuto modo di affermare, con la sentenza n. 103 del 2007, che la previsione di una cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali “interni” di livello generale viola, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa>>.
Con la sentenza n. 161 del 2008, la stessa Corte Costituzionale, inoltre, ha precisato che questi principi valgono anche in presenza di incarichi dirigenziali conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
In particolare, si è osservato come, in tali casi, la mancanza di un previo rapporto di servizio con l’amministrazione conferente non sia idonea ad incidere sulle regole di distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori dei dirigenti e conseguentemente sull’applicabilità dei principi costituzionali sopra richiamati.
In altri termini, la Corte ha rilevato la ininfluenza, sul piano funzionale, del fatto che l’atto di attribuzione di una determinata funzione dirigenziale ad un dirigente esterno, e il correlato contratto individuale non si innestino su un rapporto di lavoro dirigenziale già esistente con la stessa amministrazione. - É bene inoltre aggiungere, richiamando quanto già sottolineato con la sentenza n. 313 del 1996, che la contrattualizzazione della dirigenza non consente alla pubblica amministrazione di recedere liberamente dal rapporto instaurato con un dirigente non generale, in quanto ciò impedirebbe al dirigente stesso di svolgere in modo autonomo ed imparziale la propria attività gestoria.
Questi principi sono stati recepiti anche nella sentenza della Cassazione sez. lavoro del 13/01/2014 n. 478 secondo cui << Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, nel testo modificato – quanto alla durata degli incarichi – dal D.L. n. 155 del 2005, art. 14 sexies, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, nel disciplinare le modalità del conferimento degli incarichi dirigenziali, ha stabilito, tra l’altro, che la loro durata non può essere inferiore a tre anni nè eccedere il termine di cinque anni>>.
La questione sottoposta all’esame della Corte è se tale disposizione sia applicabile anche agli enti locali, dal momento che il D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. degli Enti locali), art. 110, comma 3, stabilisce che gli incarichi a contratto – quale è quello per cui è controversia – non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco in carica.
Ritiene la Corte che al quesito debba darsi risposta positiva.
Questi principi sono stati da ultimo confermati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 15/2017 in cui viene chiarito che: “Questa Corte è stata negli anni chiamata più volte a valutare la compatibilità con i principi costituzionali di disposizioni, statali e regionali, introducenti meccanismi di decadenza automatica di incarichi dirigenziali dovuta a cause estranee alle vicende del rapporto d’ufficio, sottratta a qualsiasi valutazione dei risultati conseguiti, qualora tali meccanismi siano riferiti a titolari di incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di funzioni amministrative attuative degli indirizzi politici”.
Tale decadenza automatica è stata ascritta allo spoil system, risultando gli interventi normativi in questione sovente disposti in relazione a cambiamenti della compagine governativa, ovvero al mutamento degli organi di indirizzo politico nazionali o regionali.
I predetti meccanismi di decadenza automatica sono stati dalla Corte ritenuti compatibili con l’art. 97 Cost., esclusivamente ove riferiti ad addetti ad uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) o a figure apicali, quali quelle contemplate dall’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001 (sentenza n. 34 del 2010).
E’ appena il caso di evidenziare che l’incarico di dirigente della Polizia Municipale non è da considerarsi quale incarico di diretta collaborazione con l’organo di governo (Corte Cost. sentenza n.304 del 2010; Corte di Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 15 luglio – 30 settembre 2009, n. 20981) e, pertanto, pur trattandosi di un incarico dirigenziale, non è equiparabile a quello di organo di Staff del Sindaco.
Tuttavia, anche oggi come al tempo di Galileo, il dirigente viene “rimosso” dal suo incarico se non è in linea con il “pensiero dominante” rappresentato dal Sindaco, o dalla sua corrente politica.
Per rimuovere il Comandante, dirigente o meno, della P.M. si sono sviluppate nel tempo diverse casistiche: la soppressione del posto dirigenziale in pianta organica; il mancato raggiungimento degli obiettivi, durata ridotta dell’incarico, incompatibilità ambientale e, da ultimo, la violazione del codice etico.
Nel campo del pubblico impiego si sono susseguiti tre codici di comportamento “generali”: il D.M. 31-3-1994, approvato all’indomani della privatizzazione; il D.M. 28-11-2000, che per primo definiva con puntualità gli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità della condotta del pubblico dipendente; infine, il D.P.R. 16-4-2013, n. 62, adottato in base alla L. 190/2012, cd. legge anticorruzione e che ha sostituito il previgente del 2000.
I doveri degli impiegati trovano precisa enunciazione anche nella contrattazione collettiva, le cui disposizioni vanno sempre coordinate con la legislazione ordinaria.
Il dipendente deve: - collaborare con diligenza;
- rispettare il segreto d’ufficio;
- non utilizzare a fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni d’ufficio;
- nei rapporti con il cittadino, fornire tutte le informazioni cui abbia titolo, nel rispetto delle disposizioni in materia di trasparenza e di accesso all’attività amministrativa previste dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 e dai regolamenti attuativi della stessa vigenti nell’amministrazione, nonché attuare le disposizioni in tema di autocertificazione;
- rispettare l’orario di lavoro, adempiere alle formalità previste per la rilevazione delle presenze e non assentarsi dal luogo di lavoro senza l’autorizzazione del dirigente del servizio;
- durante l’orario di lavoro, mantenere nei rapporti interpersonali e con gli utenti una condotta uniformata a princìpi di correttezza ed astenersi da comportamenti lesivi della dignità della persona;
- non attendere ad occupazioni estranee al servizio e ad attività, che ritardino il recupero psicofisico, in periodo di malattia o infortunio;
- eseguire gli ordini inerenti all’espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano impartiti dai superiori.
Se ritiene che l’ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l’ha impartito, dichiarandone le ragioni; se l’ordine è rinnovato per iscritto ha il dovere di darne esecuzione.
Il dipendente non deve, comunque, eseguire l’ordine quando l’atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo; - avere cura dei locali, mobili, oggetti, macchinari, attrezzi, strumenti ed automezzi a lui affidati;
- non valersi di quanto è di proprietà dell’amministrazione per ragioni che non siano di servizio;
- non chiedere né accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità in connessione con la prestazione lavorativa;
- osservare scrupolosamente le disposizioni che regolano l’accesso ai locali dell’amministrazione da parte del personale e non introdurre, salvo che non siano debitamente autorizzate, persone estranee all’amministrazione stessa in locali non aperti al pubblico;
- comunicare all’amministrazione la propria residenza e, ove non coincidente, la dimora temporanea, nonché ogni successivo mutamento delle stesse;
- in caso di malattia, dare tempestivo avviso all’ufficio di appartenenza, salvo comprovato impedimento;
- astenersi dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere direttamente o indirettamente interessi finanziari o non finanziari propri.
La materia dei doveri dei pubblici impiegati e delle conseguenti responsabilità è stata profondamente innovata con la L. 6-11- 2012, n. 190, cd. legge anticorruzione.
Le PP.AA., difatti, devono definire un piano di prevenzione della corruzione che fornisca la valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e che indichi gli interventi organizzativi volti a prevenire tale rischio.
Inoltre, esse dovranno nominare un responsabile della prevenzione, cui spetta il compito di elaborare la proposta del piano di prevenzione e di formare i dipendenti che operano nei settori più a rischio.
La violazione dei doveri recati dal codice è fonte di responsabilità disciplinare nonché rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile nel caso essa sia collegata alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti.
Detto codice — adottato appunto con il D.P.R. 62/2013 — dovrà, poi, essere a sua volta integrato con un codice di comportamento a livello di ogni singola amministrazione.
Interessante è la disciplina in tema di regali, compensi e altre utilità.
Il dipendente, infatti, non deve chiedere, nè sollecitare, per sè o per altri, regali o altre utilità.
Allo stesso modo non accetta, per sè o per altri, regali o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore effettuati occasionalmente nell’ambito delle normali relazioni di cortesia e nell’ambito delle consuetudini internazionali (ossia quelli di valore non superiore, in via orientativa, a 150 euro, anche sotto forma di sconto).
Importante anche il nuovo richiamo alla prevenzione degli illeciti nell’amministrazione.
È questo uno degli echi più evidenti della legge anticorruzione, L. 190/2012.
In particolare, il dipendente deve rispettare le prescrizioni contenute nel Piano per la prevenzione della corruzione, prestare la sua collaborazione al responsabile della prevenzione e, fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, segnalare al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza.
Peraltro già presente nel D.Lgs.165/2001, come modificato dal D.Lgs.150/2009, art. 55 bis, comma 7.
Tra i doveri, ancora, spiccano quelli connessi al rispetto del principio di trasparenza nell’ambito dell’organizzazione dei pubblici uffici.
Tale ultimo profilo si correla strettamente con quanto previsto dal D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, recante il riordino degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.
Per i dirigenti, infine, è previsto:
— l’obbligo di comunicare all’amministrazione le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possono porli in conflitto d’interesse con le funzioni che svolgono;
— l’obbligo di fornire le informazioni sulla propria situazione patrimoniale previste dalla legge;
— il dovere, nei limiti delle loro possibilità, di evitare che si diffondano notizie non vere sull’organizzazione, sull’attività e sugli altri dipendenti.
Precisa anche l’elencazione dei criteri cui il dipendente deve ispirarsi nella condotta privata, nel comportamento in servizio nonché nei rapporti con il pubblico:
— nei rapporti privati — comprese le relazioni extralavorative con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni — il dipendente non sfrutta, nè menziona la posizione che ricopre nell’amministrazione per ottenere vantaggi e non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione;
— nell’ambito dei comportamenti in servizio, egli non ritarda nè adotta comportamenti tali da far ricadere su altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza ed utilizza il materiale o le attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio e i servizi telematici e telefonici dell’ufficio nel rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione;
— nei rapporti con il pubblico si fa riconoscere attraverso l’esposizione in modo visibile del badge o altro supporto identificativo messo a disposizione dall’amministrazione ed opera con spirito di servizio, correttezza, cortesia e disponibilità.
Sull’applicazione del codice (e dei codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni), vigilano i dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici etici e di disciplina.
E qui torna il concetto di “pensiero dominante” di vecchia memoria.
La violazione degli obblighi previsti dal codice integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle relative disposizioni, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal Piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni.
Con la legge anticorruzione n. 190 del 2012 fa il suo ingresso, per la prima volta nell’ordinamento italiano, il whistleblowing, termine che deriva dall’espressione inglese «blow the whistle», letteralmente «soffiare il fischietto», riferendosi in maniera figurata all’azione dell’arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un’azione illegale, con ciò intendendo la situazione di chi denuncia pubblicamente, ovvero riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all’interno dell’organizzazione di lavoro: si tratta del nuovo art. 54bis D.Lgs. 165/2001 (novellato dal D.L. 90/2014, come conv.), che disciplina la tutela del dipendente (pubblico) che segnala attività illecite.
La norma dispone che, fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’art. 2043 c.c., il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria, alla Corte dei conti o all’A.N.AC. (Autorità Nazionale Anticorruzione) ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
Nell’ambito del procedimento disciplinare, inoltre, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia invece fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione.
Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.
L’adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della Funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.
La denuncia è, a sua volta, sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge sul procedimento amministrativo.
In particolare, con la L. 190/2012, oltre a quanto già detto sia in merito a doveri dei dipendenti e nuovo codice comportamentale sia in ordine alla figura del dirigente, chiamato a porsi quale figura di riferimento per rafforzare (e gestire) l’intera politica di lotta al malaffare nelle amministrazioni (cd. Responsabile della prevenzione della corruzione), ha introdotto le seguenti novità:
— è stata prevista la rotazione dei dipendenti e dei dirigenti che lavorano nei settori più delicati ed esposti (quali appalti e concorsi);
— è stato inserito nel corpus del Testo Unico pubblico impiego un nuovo articolo, il 35bis, riguardante la prevenzione della corruzione nella formazione delle commissioni per l’accesso ai pubblici uffici e nell’assegnazione agli stessi;
— è stato novellato l’art. 53, sul sistema di incompatibilità e cumulo di impieghi ed incarichi. Ulteriori importanti tasselli sono stati introdotti, dal D.Lgs. 33/2013, cd. Testo Unico per la trasparenza nelle amministrazioni pubbliche — con il quale ogni aspetto dell’azione e delle organizzazione della P.A. diviene, in sostanza, pubblico — e con il D.Lgs. 39/2013, recante la nuova normativa in tema di incompatibilità ed inconferibilità di incarichi dirigenziali e di vertice nelle amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico.
L’«incompatibilità» è, invece, l’obbligo per il soggetto cui viene conferito l’incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di quindici giorni, tra la permanenza nell’incarico e l’assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, lo svolgimento di attività professionali ovvero l’assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico.
Tra i principali doveri del pubblico dipendente vi è anche quello di esclusività: egli è tenuto a riservare la propria attività lavorativa solo all’amministrazione di appartenenza. Ciò discende dall’art. 98 Cost. (secondo cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione).
La disciplina base in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi nel pubblico impiego è recata dall’art. 53 D.Lgs. 165/2001 (come novellato dalla L. 190/2012 e dal D.L. 101/2013, conv. in L. 125/2013); tale articolo si applica sia ai dipendenti privatizzati che a quelli in regime di diritto pubblico.
Secondo tale disposizione, il pubblico impiegato non può svolgere attività commerciali, imprenditoriali, industriali, artigiane e professionali in costanza di rapporto di lavoro.
Tale dovere viene meno solo in caso di impiego part time non superiore al 50% dell’orario ordinario.
Il dipendente, inoltre, può svolgere solo gli incarichi previamente conferiti o approvati dall’amministrazione di appartenenza o che siano comunque previsti o disciplinati dalla legge o da altre fonti normative; senza autorizzazione non possono essere conferiti incarichi, né da parte delle PP.AA. né da parte di enti pubblici economici e soggetti privati.
Gli incarichi retribuiti di cui si parla nell’art. 53 sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso.
Sono esclusi da tale ambito i compensi derivanti:
— dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
— dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali;
— dalla partecipazione a convegni e seminari;
— da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate;
— da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
— da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
— da attività di formazione diretta ai dipendenti della Pubblica Amministrazione, nonché di docenza e ricerca scientifica.
Secondo la migliore dottrina, sono esclusi dagli incarichi retribuiti quelli svolti gratuitamente anche in assenza di un’espressa previsione normativa.
L’autorizzazione va chiesta dai soggetti pubblici o privati che intendano conferire l’incarico al dipendente all’amministrazione di appartenenza di quest’ultimo, la quale deve pronunciarsi in merito nei successivi 30 giorni (decorso il termine per provvedere l’autorizzazione si intende accordata se richiesta per incarichi da conferirsi da pubbliche amministrazioni; negli altri casi, si intende definitivamente negata).
Anche in tale settore ha inciso la normativa anticorruzione, specie con riferimento alla più marcata separazione tra politica e amministrazione ed al conseguente divieto per chi abbia avuto compiti in organizzazioni politiche e sindacali di essere destinatario di incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale.
In generale, si conferma il divieto di conferimento degli incarichi atipici, ossia non correlati a compiti e doveri d’ufficio previsti dalla legge; la disciplina delle incompatibilità viene raccordata a quella sul conflitto di interessi, statuendo che l’eventuale autorizzazione a ricoprire incarichi esterni al rapporto di lavoro avvenga sulla base di criteri oggettivi e predeterminati idonei a scongiurare potenziali situazioni di conflitto.
Conclusioni
Il rimedio alla corruzione ha prodotto risultati peggiori di quelli che voleva correggere.
Dire che vi è stata una violazione del codice etico, significa entrare in un ambito soggettivo, e quindi discrezionale, assolutamente incontrollabile.
Peraltro, la denuncia della presunta violazione è sottratta all’accesso agli atti e “l’incolpato” non sa, e non può sapere, da chi e per che cosa è stato additato.
Come è accaduto a Galileo il 22 giugno 1633, ancora oggi il dipendente si vede costretto ad abiurare per uniformarsi alle logiche del “pensiero dominante”.
Eppure nel periodo illuminista era stata ideata la frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire» (tradizionalmente attribuita al filosofo francese Voltaire, anche se sembra dallo stesso mai pronunciata).
Siamo tornati in un’epoca oscurantista dove si fa carriera più nelle segreterie dei partiti e nelle anticamere dei politici che per vincita di concorsi e dove, paradossalmente, chi ha studiato, conosce e sa ma deve tacere, per sua stessa convenienza, se vuole essere socialmente vivo.