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Corpus hypercubus

    Ti presento «Corpus hypercubus» di Salvador Dalì, opera del 1954 conservata nel Metropolitan Museum di New York.

    Il pittore spagnolo è noto per la sua personalità complessa e densa di contraddizioni: geniale e megalomane, ebbe una produzione a volte dissacrante, volutamente scandalosa, eppure non priva di una ricerca sincera del vero e del bello. La sua musa ispiratrice fu la moglie Gala, alla quale rimase fedele per tutta la vita e la cui bellezza fu il veicolo che – a suo modo – lo condusse al cielo. A proposito di cielo e di fede, Dalì affermò: «Il Cielo, ecco quello che la mia anima ebbra d’assoluto ha cercato durante tutta una vita che a certuni è potuta sembrare confusa e, per dirla tutta, profumata dello zolfo del demonio… Il Cielo non si trova né in alto, né in basso, né a destra, né a sinistra, il Cielo è esattamente al centro del petto dell’uomo che possiede la fede. In questo momento non possiedo la fede e temo di morire senza Cielo».

    Dopo l’esplosione della bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, in Dalì maturò un certo misticismo che egli definiva «misticismo dell’atomo»: iniziò a produrre soggetti religiosi, alcuni dei quali rappresentano dei veri capolavori, manifestando un rinnovato interesse per la cultura religiosa occidentale e le fonti mistiche della tradizione spagnola.

    Contro un cielo scuro e una improbabile croce cubiforme, il Cristo dipinto da Dalì si staglia immacolato, glorioso e perfetto senza traccia di sangue: solo lo spasmo delle mani e la posizione del capo tradiscono il sacrificio. La croce cubiforme di Dalì e l’assenza dei segni di violenza sul corpo di Cristo esprimono il ripudio del sentimentalismo nella fede e la tensione del corpo di Gesù esprime la sua generosa offerta per amore dell’umanità, rappresentata dalla figura femminile in basso. Cristo è qui l’immagine dell’uomo perfetto, nuovo Adamo sospeso fra cielo e terra, non in forza dei chiodi (totalmente assenti), ma in forza dell’amore. Il suo sacrificio è finalizzato a riparare il peccato dell’uomo, simboleggiato dalla pavimentazione a scacchi, e per restaurare il progetto della creazione, allusa dal cielo, dalla terra, e dal mare sullo sfondo del dipinto.

    La croce dipinta da Salvador Dalì ha una struttura cubiforme, immagine che inquieta perché esaspera ulteriormente la sospensione del corpo di Cristo tra cielo e terra: rappresenta la somma del dolore del mondo e della malvagità umana. Quando Dalì dipinse questo quadro nel 1954, aveva alle spalle una vita in continua fuga dalle guerre: la prima guerra mondiale, la guerra civile di Spagna, e la seconda guerra mondiale con tutte le atrocità che l’accompagnarono. Il cubo esprime la capacità dell’uomo di razionalizzare il male, di pianificare la morte e la tortura. Ciò che impressionò Dalì, orientando in modo diverso la sua vita, fu l’esplosione atomica del 6 agosto 1945: «L’esplosione atomica mi aveva sismicamente fatto vacillare. Ormai l’atomo era il mio argomento di riflessione preferito. Molti paesaggi dipinti durante questo periodo esprimono la grande paura da me provata all’annuncio di questa esplosione».

    Ogni uomo può leggere nella croce cubica di Dalì la cifra del proprio dolore e il male del proprio tempo. Un male e un dolore da cui però Dio non si è sottratto, egli ha anzi attuato la redenzione accettando il mistero di iniquità che lo ha progressivamente avvolto. L’irreale pavimento a scacchi presente sotto la croce, come abbiamo detto, è simbolo della storia con le sue trame, con i suoi giochi di azzardo e di potere: Cristo ha accettato di riparare questo male salendo sulla croce della storia, così come il Padre gliela presentava, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.

    La luce, nel dipinto di Dalì, investe Cristo dall’alto illuminandogli il petto mentre un timido bagliore si leva dall’oscuro panorama preannunciando un’alba che sembra però destinata a non venire mai. Il corpo di Cristo allora risulta essere la vera luce, tutto ciò che è lontano da Lui rimane nel buio. Solo la donna è “bagnata” dalla sua luce risultando così ancora più vivida nei colori e rinnovata. La nudità statuaria di Gesù contrasta con la sontuosità delle vesti della donna: Cristo rappresenta l’innocenza, la purezza, la bellezza che salva il mondo; la donna, ritratto dell’amata moglie Gala, esprime invece la nobiltà, come affermato dallo stesso artista: «La nobiltà può venire ispirata solo dall’ essere umano. Io mi avvicino alla nobiltà solo dipingendo Gala». I colori degli abiti della donna richiamano i colori della scena come l’ocra della croce, l’argento della pavimentazione, e il blu del mare: la veste più nascosta e più vicina alla sua carne, è blu ¬come il mare, simbolo del male e quindi rimando alla fragilità umana; il drappo ocra rimanda al desiderio di imitare Gesù crocifisso; il manto argentato, che più delle altre vesti riflette la luce, richiama la divinità. «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri», come ha scritto San Paolo (Rm 13,14).

    Se Cristo è l’unico riparatore, tuttavia, da parte del credente, è necessaria la partecipazione all’opera di riparazione attraverso l’offerta di se stessi e l’imitazione di Gesù: la disponibilità a «salire sulla croce della storia» non si improvvisa, si prepara mediante l’adesione sincera e costante alle esigenze del Vangelo. Una disponibilità che la donna del dipinto esprime attraverso il gesto elegante del braccio, bloccato e fissato nel tempo, quasi nell’atto di compiere un segno di croce.