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Il personaggio di Gabriele D’Annunzio

    Un fenomeno che neppure la critica di Croce riuscì ad esorcizzare fu il fascino morboso esercitato dalla prosa e dalla poesia di Gabriele D’Annunzio.

    Fu questi un uomo che condusse una vita voluttuosa e stravagante, quasi sempre immerso nei debiti, alla ricerca costante di quanto risultasse spettacolare.

    Portava ogni cosa all’eccesso, rincorrendo sempre nuove esperienze e nuove follie, ansioso di superare chiunque altro in tutto, con più alte velocità, più forti passioni, una più sconcertante vita privata, più violente offese alle convenzioni.

    Lo storico britannico Denis Mack Smith tratteggia il profilo di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 1863 – Gardone Riviera, 1938), caposcuola del Decadentismo e controverso protagonista della Cultura italiana del Novecento.

    Autore leggendario, il letterato abruzzese è definito dallo scrittore Davide Rondoni “poeta grandioso a cui tornare sempre” che nutriva un “senso tragico del vivere gonfiatosi in museo e fanfara”.

    Secondo lui, “D’Annunzio ha affrontato la grande crisi dell’Io del Novecento, la stessa faccenda di cui si sono occupati Nietzsche, Freud e tanti altri, ed ha risposto al vuoto dell’Io espandendo il suo all’infinito, cercando di diventare tutto: soldato, poeta, politico, aviatore, museo dei suoni, della lingua, delle stoffe, museo di se stesso.”

    Il mito dannunziano si nutre, in realtà, di odio e amore irriducibili. La personalità, le gesta e l’opera divisive del ‘Vate‘ furono bersagliate, infatti, da insulti spietati e velenose stroncature ma godettero anche di tanti ed illustri apprezzamenti, altrettanto radicali.

    E appaiono davvero inconciliabili i giudizi, ad esempio, di James Joyce, che riteneva il poliedrico artista, militare e patriota uno dei “tre scrittori dell’Ottocento naturalmente dotati di maggior ingegno”, con Kipling e Tolstòj, e di Alberto Moravia, che affermava con sicurezza che “non è un poeta, è un letterato e per giunta di pessimo gusto”, o dei categorici Filippo Tommaso Marinetti ed Ernest Hemingway, che, senza appello, lo oltraggiavano rispettivamente come “cretino con dei lampi di imbecillità”, e, noblesse oblige, emerito “coglione”.

    In un contesto critico così vivace ed estremista, recuperiamo l’estasiato invito alla lettura del succitato Rondoni, il quale, a proposito della seguente lirica, scrive nel volume edito da La nave di Teseo, ‘L’allodola e il fuoco, le 50 poesie che accendono la vita’: “A scuola, ‘La sera fiesolana’ mi aveva detto pochissimo, mi aveva colpito pochissimo. Adesso quasi mi mette in ginocchio. È un testo di una tale bellezza, di una grandezza e tragicità che ti viene da cadere a terra e chiedere: ma cos’è? Va letta piano.”