Ottant’anni fa gli alleati bombardarono l’abbazia culla della cultura occidentale, ma non le opere che custodiva.
Come mai? Siamo andati a farcelo raccontare
Che bel tipo, Maximilian: è giovane, fa il medico, ha una passione per l’arte e non gli mancano né il coraggio né il fascino.
Unico difetto: milita nella divisione Hermann Göring.
È un ufficiale nazista, un nemico.
Al quale però dobbiamo il salvataggio dei tesori dell’abbazia di Montecassino, finita al centro della tempesta perfetta che si abbatté su questi luoghi di pace 80 anni fa, come era avvenuto secoli prima con l’arrivo dei longobardi e poi dei saraceni.
All’apice delle battaglie lungo la linea Gustav, il 15 febbraio 1944 la culla dell’ordine benedettino fu rasa al suolo dagli Alleati con uno spaventoso bombardamento che, iniziato alle 9.45 del mattino, si protrasse in cinque ondate fino al pomeriggio.
Sopra un campo di macerie, circondata dal fumo, al tramonto restava in piedi una facciata, dietro la quale non c’era più niente.
Un errore strategico, che fece inorridire l’Occidente e costò la vita a 230 civili senza che gli angloamericani ottenessero granché: non c’erano né tedeschi né armi, nell’abbazia, e i progressi militari furono pari a zero.
Montecassino, 80 anni dopo. Ora un libro accusa il Vaticano: “Mostrò disinteresse”.
Cassino ricorda la distruzione e le battaglie di quei mesi con iniziative che andranno avanti fino a dicembre. Convegni, film, processioni, un libro.
Oggi non si vede nulla del disastro: tutto è stato ricostruito, recuperando quello che si è potuto da sotto le macerie, come alcune colonne rimaste quasi intatte, evidentemente destinate a reggere per l’eternità. Quanto al nostro medico militare (anzi, al loro), il Venerdì è andato sulle sue tracce tornando a Montecassino.
Di Maximilian J. Becker, e di un altro ufficiale della Göring, Julius Schlegel, artefice del salvataggio, sa tutto don Mariano Dell’Omo, il direttore dell’archivio dell’abbazia, dove è custodito, tra tante meraviglie, il Placito capuano, la prima testimonianza scritta del passaggio dal latino al volgare («sao ko kelle terre …»).
Sei mesi prima delle bombe, il 14 ottobre 1943, riassume Dell’Omo, Schlegel e Becker si presentano dall’abate Gregorio Diamare invitandolo a mettere in salvo i tesori dell’abbazia, e i suoi abitanti: «La linea di resistenza a oltranza passa da Cassino» gli dicono in via riservata. «L’abate fu colpito come da una bastonata» racconterà poi Schlegel nel suo memoriale.
L’idea dell’”evacuazione” è del giovane Becker.
Che nel convento francescano di Teano, dove ha allestito un posto di pronto soccorso, ha trovato le casse di libri della biblioteca nazionale di Napoli.
L’ispirazione gli è venuta da lì.
Contatta il tenente colonnello Siegfried Jacobi, che ne parla con Schlegel: questi e Becker, senza consultare né le autorità tedesche, né quelle italiane o vaticane, decidono di portare l’archivio e la biblioteca benedettina a Colle Ferreto, presso Spoleto, nel deposito della divisione Hermann Göring.
«Difficile elencare che cosa si doveva salvare» dice Dell’Omo. «Con le sue mura ciclopiche datate IV-III secolo, l’abbazia costituiva già di per sé un’eredità di incalcolabile valore. Simbolo dell’evangelizzazione cristiana dell’Italia e dell’Europa, custodiva, per esempio, il ciclo di affreschi della basilica capolavoro della pittura napoletana del ‘600-’700, andato perduto; almeno 14 mila pergamene e 1.200 codici manoscritti». La biblioteca conteneva migliaia di volumi e opuscoli, insieme a oltre duemila cinquecentine e a oltre 200 incunaboli, e un archivio musicale preziosissimo (incluso, per dire, lo Stabat mater autografo di Pergolesi).
Il 17 ottobre 1943 si comincia.
Da una fabbrica sul Volturno gli autocarri portano tavole già tagliate e attrezzi.
Schlegel impartisce gli ordini.
Alla fine si contano 240 casse con gli stampati e 26 con i codici, 128 capsule (o “tiretti”) di documenti.
Va tutto a Colle Ferreto, tranne tre casse speciali, di cui i tedeschi non sanno niente: racchiudono il tesoro di San Gennaro di Napoli, che è stato portato a Montecassino il 26 maggio 1943 con l’intento di salvarlo, e che i monaci hanno custodito come bene privato.
L’8 dicembre 1943, dopo le proteste diplomatiche vaticane, il carico giunge finalmente a Roma per essere consegnato alle autorità italiane.
Becker quel giorno non c’è: nessuno lo ha invitato.
Non lo sa ancora, ma è nei guai per avere protestato quando si è saputo che Göring desiderava per sé alcuni dei tesori napoletani finiti a Spoleto (ci furono manomissioni e sparizioni).
Presto gli contesteranno il rapporto con i monaci e sarà accusato di avere usato i mezzi della Wehrmacht per scopi inappropriati. «Quello che ho fatto l’ho fatto per la civiltà europea» dirà lui.
Lo destinano al fronte russo, ma per fortuna la guerra finisce prima.
E poi?
Nel 1951 Julius Schlegel, con cinque articoli sulla rivista viennese Die Österreichische Furche, scrive il memoriale intitolato Il mio rischio a Montecassino e omette di citarlo. Becker risponderà solo nel 1964 con un suo memoriale, pubblicato nel 1980, nel quale invece non manca di ricordare anche l’opera di Schlegel. Il finale forse poteva essere più nobile.
Ma si sa: eroi o non eroi, così vanno le cose del mondo.