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La battaglia di Maratona

    Il 12 settembre dell’anno 490 a.C. nella piana di Maratona, sulle sponde dell’Egeo, i 10mila opliti di Atene e i 600 soldati che costituivano il piccolissimo esercito della sua alleata Platea inflissero all’esercito persiano una sconfitta schiacciante.

    Su questo sarcofago romano conservato a Brescia appare il momento della battaglia in cui i persiani fuggono sulle loro barche

    La mattina del 12 settembre (o del 10 agosto secondo alcuni) del 490 a.C. 10mila opliti, per la maggior parte ateniesi, si schierarono a ovest della piana di Maratona, pronti a lottare per la loro libertà e per la loro sopravvivenza.

    Sull’ala destra era allineato il battaglione della tribù aiantide, dove combatteva il drammaturgo più grande di quei tempi, Eschilo, assieme ai fratelli Cinegiro e Aminia.

    In quanto aristocratici i tre potevano permettersi il costoso equipaggiamento di un oplita. 

    Nella mano destra Eschilo impugnava una lancia di frassino di due metri e mezzo e indossava corazza, elmo e gambali in bronzo detti anche schinieri. 

    Il metallo ricopriva anche l’arma più importante dell’equipaggiamento oplita, lo scudo in legno imbracciato in modo tale che a sinistra fuoriuscisse per metà.

    Il compagno posto da quel lato aveva quindi a disposizione lo scudo dell’altro per proteggere il proprio fianco destro, così come Eschilo si riparava tenendosi ben stretto al commilitone alla sua destra. 

    I punti di forza della falange erano la coesione e lo spirito di gruppo: finché la parete di scudi fosse rimasta serrata, sarebbe risultata impenetrabile. 

    Davanti agli ateniesi erano schierati tra i 20mila e i 30mila soldati persiani. 

    Le loro lance erano più corte e gli scudi di vimini e cuoio  più leggeri.

    Tuttavia erano le loro frecce ciò che più temevano Eschilo e i suoi compagni, perché i soldati del re Dario I godevano della fama di ottimi arcieri.

    Malgrado gli opliti fossero forti nell’othismos (lo scontro corpo a corpo), se volevano giungere a quel momento dovevano prima sopravvivere alla pioggia di dardi.

    Nonostante tale minaccia e l’inferiorità numerica, gli ateniesi erano pronti a caricare contro il nemico.

    Mentre stringeva i denti sotto l’elmo e scambiava parole d’incoraggiamento con i fratelli Eschilo dovette forse pensare a com’erano arrivati a una situazione tanto impari. 

    Nel 499 a.C., quando lui aveva ventisei anni, Atene aveva fornito venti navi agli ioni dell’Asia Minore durante la loro rivolta contro l’impero persiano.

    La ribellione venne soffocata ma Dario giurò che si sarebbe vendicato degli ateniesi.

    Così nell’estate del 490 a.C. un’armata di seicento barche con un esercito di circa 25mila uomini attraversò l’Egeo.

    Dopo aver distrutto isole e città, la potente flotta persiana sbarcò sull’ampia spiaggia di Maratona i primi di settembre

    Quando la notizia giunse alle orecchie degli ateniesi Eschilo, i fratelli e il resto dei cittadini maschi vennero convocati per un’assemblea urgente.

    La decisione da prendere si mostrava ardua perché andare incontro a un esercito di gran lunga più imponente comportava un grande rischio.

    Tuttavia, rimanere ad aspettarlo non sembrava nemmeno una buona opzione dal momento che le mura della città erano ridotte in pessimo stato e non potevano accogliere tutta la popolazione dell’Attica, la regione di Atene.

    Dopo un lungo dibattito venne accettata la proposta di Milziade, il più carismatico tra i dieci generali che comandavano l’esercito.

    Convinti da lui, gli ateniesi inviarono un messaggero a chiedere aiuto agli spartani in nome del patto di mutua difesa contro i persiani

    Mentre l’emissario viaggiava verso Sparta, oltre novemila opliti si diressero a Maratona. Lì si unirono a loro seicento guerrieri della piccola Platea, fedele alleata di Atene.

    Con quel contingente l’esercito arrivava a circa 10mila uomini di cui faceva parte anche la fanteria leggera, che in realtà contava ben poco.

    Erano divisi in undici battaglioni: dieci per ognuna delle tribù o divisioni amministrative di Atene e uno in più per gli alleati di Platea. 

    Per diversi giorni entrambi gli eserciti si studiarono a distanza concedendosi soltanto delle piccole scaramucce. 

    Gli ateniesi avevano remore ad avventurarsi nella pianura, dove la cavalleria nemica avrebbe potuto colpirli sulle ali e attaccarli dalla retroguardia mentre gli arcieri li avrebbero investiti di dardi frontalmente.

    Dal canto loro i persiani non si azzardavano ad assaltare la solida posizione greca sul versante del monte.

    Ma il loro generale, Dati, era cosciente del fatto che i rinforzi spartani non avrebbero tardato ad arrivare.

    Il tempo scorreva contro di lui. 

    Nella notte tra l’11 e il 12 settembre Dati decise d’imbarcare in gran segreto la sua cavalleria e una parte delle truppe per navigare alla volta di Atene, lasciata praticamente indifesa, mentre il resto dell’esercito avrebbe tenuto inchiodati gli avversari sul posto.

    Questi però vennero a sapere della manovra grazie ad alcuni disertori. 

    In piena notte fu convocato un affrettato consiglio di guerra. 

    Se alcuni volevano ritornare a difendere Atene lasciandosi così alle spalle migliaia di nemici, Milziade, allora comandante di turno, convinse gli altri nove generali che era meglio avventurarsi a combattere nella piana anche se gli spartani non erano ancora arrivati in loro aiuto

    Grazie a lui, la mattina del 12 settembre Eschilo e i fratelli erano schierati per la battaglia.

    Mentre i sacerdoti sacrificavano vittime agli dei e i generali arringavano gli uomini di ogni tribù, il drammaturgo contemplava le file nemiche.

    Si trovavano a un chilometro e mezzo di distanza e grazie ai rapporti dei ricognitori Eschilo sapeva chi avrebbero dovuto affrontare. 

    Nella prima fila erano schierati gli sparabara, dotati di enormi scudi di vimini e cuoio bollito simili a porte.

    Dietro quella barriera c’erano molte altre file di soldati di fanteria composte da arcieri e lancieri che portavano faretre cariche di frecce e archi compositi con cui scoccavano proiettili a una tale velocità che, prima che il dardo si fosse conficcato a terra, un altro già sibilava in aria. 

    Anni dopo uno spartano avrebbe detto che le loro frecce erano talmente numerose da offuscare il sole

    Alla fine, agli ordini dei loro generali Eschilo e gli altri si calarono gli elmi, imbracciarono gli scudi e avanzarono decisi.

    Malgrado quanto avrebbe affermato lo storico Erodoto decenni più tardi, non attraversarono correndo i millecinquecento metri che li separavano dai persiani giacché il peso delle armi li avrebbe spossati.

    In realtà procedettero a passo normale fino alla distanza alla quale sarebbero giunte le prime frecce.

    Allora Milziade diede l’ordine di andare alla carica.

    Mentre intonavano il canto guerriero del peana, gli opliti iniziarono a correre per rimanere il minor tempo possibile sotto la grandine di dardi.

    Come gli altri, Eschilo di sicuro pregava tra i denti tutti gli dei e alzava lo scudo sopra la testa, mentre le frecce rimbalzavano sulla fine lamina di bronzo che lo copriva emettendo un ticchettio metallico che gareggiava con i battiti accelerati del suo cuore. 

    La carica non dovette durare più di mezzo minuto, ma a Eschilo dovette sembrare eterna.

    Finalmente i temuti persiani diventavano reali ai suoi occhi.

    Appena fu più vicino poté leggere sui loro volti le smorfie d’incredulità per la corsa suicida degli ateniesi, ma anche la paura che ne fece vacillare gli animi.

    E i persiani non avevano torto a essere intimoriti: gli scudi degli sparabara, meno solidi di quelli greci, non resistettero allo scontro.

    Gli opliti della prima fila spronati dai compagni dietro cominciarono a penetrare tra i nemici come mietitori tra le messi.

    Eccetto gli ufficiali di più alto rango, i fanti persiani non possedevano un’armatura resistente quanto quella degli ateniesi e poiché le loro lance erano più corte nel corpo a corpo vennero sopraffatti e cominciarono a cadere a decine. 

    Mentre sulle ali dello schieramento Eschilo e i fratelli si aprivano il passo a colpi di lancia, al centro delle linee greche la lotta infuriava.

    Per allungare il fronte ed evitare manovre avvolgenti Milziade aveva lì snellito la formazione, che sul fondo poteva contare su soli quattro scudi invece dei soliti otto.

    In quel settore perciò gli ateniesi non riuscirono a trattenere il nemico e iniziarono a indietreggiare.

    Per fortuna le truppe sui lati non tardarono a prevalere nei propri settori e accorsero in loro aiuto. 

    Migliaia di persiani si ritrovarono circondati e morirono al centro del campo di battaglia, massacrati senza pietà. 

    Nella zona dove combatteva Eschilo la situazione era diversa.

    Dopo aver rotto le file i nemici che lottavano contro il suo battaglione si misero a correre verso le barche.

    Anziché affluire al centro del campo di battaglia, gli uomini della tribù aiantide si lanciarono all’inseguimento dei nemici in fuga perché in genere in quel frangente si poteva dare la morte a più avversari ferendoli alle spalle ed eliminandoli senza incontrare resistenza.

    Eppure il disordine colpì anche l’esercito greco, giacché gli opliti più entusiasti si spinsero troppo avanti e persero così la protezione dei compagni. 

    Uno di quegli imprudenti fu Cinegiro, il fratello di Eschilo, che si lanciò su una nave nemica, lasciò lo scudo per afferrarsi alla poppa e cercò di arrampicarsi a bordo.

    Davanti agli occhi inorriditi di Eschilo, che non giunse in tempo ad aiutarlo, un soldato persiano gli tagliò la mano con un colpo d’ascia.

    La leggenda narra che allora Cinegiro cercò di aggrapparsi con la mano sinistra.

    Quando anche questa gli venne tranciata tentò persino di usare i denti.

    In ogni caso cadde tra i flutti e morì dissanguato senza che il fratello potesse fare nulla per lui

    Quando Eschilo alzò lo sguardo dal cadavere di Cinegiro la battaglia era già terminata. 

    Dopo il conteggio finale gli atenesi si resero conto di aver perso solo 192 uomini. 

    E fu proprio nel battaglione di Eschilo che morirono più persone perché la lotta ai piedi delle navi era stata caotica e disperata.

    Ma lo scontro non era ancora terminato.

    Sebbene circa seimila nemici giacessero nella polvere, ne rimanevano quasi 20mila che navigavano verso sud con la flotta quasi intatta, in quanto gli ateniesi avevano catturato solo sette navi.

    Se fossero sbarcati sulla spiaggia di Falero, con pochi sforzi avrebbero attaccato un’Atene quasi inerme.

    Mentre i membri delle tribù Antiochide e Leontide rimanevano a Maratona per occuparsi di cadaveri e bottino, gli altri soldati tornarono in tutta fretta ad Atene. Alcuni giorni prima avevano coperto i quarantadue chilometri a grande velocità e ora lo fecero a marce forzate nonostante lo sfinimento dovuto alla battaglia.

    Ma ebbero la loro ricompensa. 

    Non appena la flotta persiana arrivò a Falero, Dati non trovò ad attenderlo una città indifesa, ma lo stesso esercito che lo aveva sconfitto alcune ore prima.

    Capì subito che uno sbarco sarebbe stato un autentico suicidio e diede l’ordine di levare le ancore. 

    L’ultima imbarcazione persiana sparì all’orizzonte e Atene fu percorsa da un sospiro di sollievo.

    Il giorno seguente, quando finalmente giunsero gli spartani, gli ateniesi li accompagnarono al campo di battaglia per mostrargli i cadaveri e gli armamenti dei persiani. 

    Eschilo rese omaggio a Cinegiro, che fu sepolto assieme agli altri soldati in un tumulo di nove metri di altezza conosciuto come Soros e visibile ancora oggi.

    Maratona fu la prima di una serie di dure prove cui sarebbe stata sottoposta la città di Atene. 

    Nel 480 e 479 a.C. gli abitanti dovettero evacuarla e assistere al suo incendio voluto da Serse, figlio di Dario, anche se per tutta risposta parteciparono con gli altri greci alle vittorie di Salamina e di Platea, respingendo per sempre la minaccia persiana.

    Eppure, per quanto fosse soltanto il prologo di una guerra di più vaste proporzioni, Maratona sarebbe divenuta un motivo di eterno orgoglio per gli ateniesi che per la prima volta erano riusciti a umiliare il gigante persiano.

    Eschilo ne mantenne sempre ben vivo il ricordo e predispose che dopo la sua morte, avvenuta in Sicilia nel 456 a.C., sull’epitaffio comparissero non i tredici premi vinti quale miglior autore tragico nelle Dionisiache di Atene, bensì proprio i fatti di Maratona: «Questa tomba ricopre Eschilo, figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela, la ricca di grano. Del suo coraggio potrebbero parlare il bosco di Maratona e il medo dalla folta chioma, che bene lo conobbe».