Ben diversamente dal significato comune che lo equipara allo straordinario e all’eccezionale, il sublime in senso filosofico è ciò che affascina e al contempo respinge.
Già l’etimologia manifesta questa natura contraddittoria, visto che il latino sublimis significa «alto, elevato», ma è stranamente formato dalla preposizione sub che significa «sotto».
Se la mente ha coniato un termine così contorto, è stato per esprimere che, a differenza della linearità del bello verso cui si prova solamente attrazione, il sublime connota una percezione così intensa della bellezza da riceverne anche una ferita, un trauma: percependo la superiorità dell’oggetto contemplato, si comprende altresì la propria indegnità e la propria piccolezza.
Ma c’è in gioco ancora altro nel sublime, qualcosa che riguarda l’oggetto in sé, grazie a cui si giunge a percepire anche il lato oscuro della bellezza. Il sublime, in altri termini, deriva dalla percezione dell’antinomia; è, più precisamente, la risonanza interiore prodotta dalla condizione antinomica dell’essere. Il suo sentimento genera «piacere negativo» (Kant), docta ignorantia (Cusano), «ottimismo tragico» (Florenskij), mentre la sua natura appare come “tenebra luminosissima” (Dionigi Areopagita).
Il sublime non solo coinvolge, come il logos-armonia, ma anche sconvolge, come il caos-disarmonia, e per questo rappresenta la più alta esperienza estetica.